Chi siamo
Luci del Marocco
Tranquilli, Luci del Marocco è solo un sogno.
Un sogno uscito dalla voglia di partire per mille ragioni e trovare un angolo di mondo diverso, e soprattutto andare alla scoperta dell’artigianato migliore per conoscere le persone, attraverso le cose che fanno. Così nel nostro canale YouTube Luci del Marocco abbiamo documentato passo passo le fasi di lavorazione dei vari prodotti in maniera che questi raccontino, a chi li compra, la storia da cui provengono. Lo abbiamo fatto sia per la nostra passione verso l’approfondimento, sia perché vorremmo che la nostra non fosse solo un’iniziativa commerciale, ma un ponte, magari un vero e proprio canale di comunicazione, fra due mondi ancora purtroppo lontanissimi che a tutt’oggi, nell’epoca della comunicazione globale, si parlano pochissimo.
“Dopo tutto un’opera d’arte non si realizza con le idee, ma con le mani.”
[Pablo Picasso]
Come è iniziato tutto
Esiste una connessione profonda fra il blu sintetico e artificiale dei Tuareg e la luna, probabilmente perché nel deserto la luna è più grossa e ti ispira come un’attrazione come se qualcuno ti girasse la testa con le mani per fartela guardare.
Ho conosciuto Mohammed tanti anni fa’, assieme alla ragazza che ora è mia moglie, e anche se dopo sono successe tante cose, compreso tra me e mia moglie, lui non me lo sono dimenticato più. Quando entrammo nel suo negozio rimanemmo inghiottiti dal posto e da quelle stanze piene di monili e gioielli, ammassati l’uno sull’altro assieme alle armi berbere, con un gusto dell’antico e dell’opulenza che appartiene a un’altra cultura. Il lusso buttato lì. Lui ebbe un fare paterno ed era vestito di blu. Tra noi e lui non c’erano solo gli anni di differenza, c’erano vite. Fisicamente lo ricordo come un personaggio di una di quelle favole che mi leggeva mia mamma, che lei prendeva da un libro con le pagine taglienti, che tra l’altro parlavano di avventure arabe e che un giorno mi tagliarono un dito. E scrivendo, adesso, riprendendo certi dettagli apparentemente inutili, mi rendo conto quanto sia stata importante la sensibilità che mi ha trasmesso mia mamma educandomi letteralmente a sentire, insegnandomi forse esageratamente che le cose che non si toccano sono più importanti di quelle che si toccano… visto e considerato che tra le cose che non si toccano ci sono i sogni.
Mohammed mi vendette due tappeti, ma mi conquistò per sempre. Dopo sette anni, e dopo che successero un’infinità di cose non ultime fra me e mia moglie e come si dice dalle nostre parti non sapevo più da che parte ero girato, un giorno mi trovai in una spiaggetta con una ragazza. Aveva gli occhi verdi, ma sembravano scurissimi, lei stessa era scura come la notte, come se tra gli occhi avesse incastrati dei pezzi di notte, e ogni volta che la guardavo mi faceva pensare alla luna, e anche al deserto, e al fatto che avrei voluto portarla lì.
E mentre le raccontavo la mia vita ed eravamo io e lei sotto un sole di mezzogiorno che faceva veramente sudare, mi resi conto che avrei voluto raccontarle altro. E che fino ad allora non avevo fatto niente di quello che avrei voluto fare. E in un attimo, sdraiato sulla spiaggia, a pancia in su, con le braccia aperte e le gambe chiuse, decisi che nella vita avrei fatto il trafficante di antiquariato marocchino. E in un altro attimo, diciamo 3 secondi dopo il primo pensiero, pensai che sarei dovuto tornare da Mohammed.
Da quel momento partii, anche se fisicamente ci misi qualche mese per organizzarmi, e lasciai lì la ragazza, sulla spiaggia, e proprio come gli esploratori che in tutto quello che fanno ci mettono sempre un po’ di disperazione, partii per provare ad andare a trasformare i sogni in cose che si toccano, e provare a mettere il dito su quel punto che ti fa godere che è dentro di te. Una specie di cassetto, diciamo così, dove io avevo messo Mohammed. Così mi organizzai, dissi a tutti che partivo per un’iniziativa commerciale ma non era vero, o era vero solo in parte, e presi l’aereo per Marrakech. E poi da lì, dopo qualche giorno, presi la macchina e guidai un giorno intero nel deserto senza occhiali da sole, almeno un giorno intero, con un’energia che non credevo di avere, parlando da solo, cantando e facendo pipì quando volevo. Cercando sulla mappa un posto in cui ero stato sette anni prima.
Avevo un obiettivo e già era una cosa nuova.
Seppur nella sua forma delirante avevo un obiettivo. Trovare un uomo lontano tremila chilometri da casa mia. E proporgli di fare affari con me, perché da quello che avevo potuto osservare, era il più grande venditore che avessi mai incontrato. E convincerlo che insieme avremmo potuto spaccare il mondo perché io avevo quello che gli mancava, internet, i contatti in Occidente… mentre lui aveva se stesso, il suo negozio e tutta l’incredibile storia su cui reggeva. Quell’uomo infatti era diventato ricco facendo affari direttamente con le famiglie beduine del deserto, che ancora oggi vivono di nomadismo, senza usare denaro, scambiando gli oggetti che a loro servono per la sussistenza con i loro splendidi manufatti, e rivendendo poi tutto ai turisti come solo lui sapeva fare, ai prezzi che solo lui sapeva… Questo quantomeno stando ai racconti di Mohammed, che come dicevo è il più grande venditore arabo che abbia mai incontrato, e quindi il più grande illusionista, per cui hai sempre la sensazione che da un momento all’altro possa scomparire, portandosi via tutto, il negozio, il deserto e la terra su cui poggi i piedi.
Durante il viaggio in macchina prima di incontrarlo per la seconda volta, mi ricordo che pensai costantemente quanto fosse folle la mia avventura, e quanto fosse figo il fatto di farlo senza paura e senza un piano, e di quanto fosse appassionante, e come fosse strano che le cose filassero dentro di me.
Arrivai nei pressi di Ouarzazate, dopo aver attraversato quelle strade dritte che ti sembra di volare ed essermi fatto fermare tre volte per eccesso di velocità, e appena arrivato capii subito che con il sole africano lì non si scherza, perché me lo presi subito bello dritto, senza cappellino. Rimasi rincoglionito quasi due giorni. Così mi misi a girare intorno, quasi portato, spaesato, per le bancarelle di quella piazza mezza deserta, completamente abbandonato a me stesso, finché a un certo punto proprio lì, più o meno, trovai lui. O meglio, non fui io a trovare lui, ma come fece il capitano Kurtz, con Marlowe, fu lui a trovare me.
Si era spostato 300 chilometri più a nord, probabilmente perché si era accorto che avere un negozio così in fondo al mondo era un azzardo anche per lui, almeno da un punto di vista commerciale, per cui aveva messo degli uomini-esca lungo la strada, diciamo intorno a tutte le principali porte del Sahara, per trovare quelli che l’avessero cercato. E fu proprio uno di quegli uomini a portarmi da lui.
Quando fui dentro però ci misi un po’ a capire che ero nel posto giusto, perché sette anni nel deserto cambiano le persone, ma lo capii dal negozio, dalle stanze e dal brivido che mi percorse, e poi definitivamente da come mi strinse la mano e si alzò dal tavolino in cui ci eravamo appena seduti, per salutare una turista francese con un inchino che fece tremare il mondo. Ogni venditore bara è vero, ma per i venditori marocchini è necessario aprire una lunga parentesi. Quando tratti con loro hai sempre la sensazione che possa essere tutto finto, che non sia vero niente, che sia tutto di cartapesta, compreso il negozio e il Marocco e i paesaggi sullo sfondo.
Non si tratta di stabilire un prezzo e acquistare un prodotto, ma di farsi incantare o meno. E se si trova il venditore bravo, posso garantire che è di gran lunga più conveniente lasciarsi incantare, perché è lì che sta il guadagno. Mohammed non vende teiere antiche, vende emozioni che potrebbero diventare romanzi. La stessa ubicazione del suo negozio lo prova. Lui vende l’avventura di arrivare a conoscerlo, trovarlo e stringergli la mano e chiedergli se un giorno, prima o poi, ti accompagnerà dalle famiglie nomadi a filmare tutto, anche se in una piccola parte umida del tuo cervello ti resta il dubbio che le famiglie nomadi non esistano, e che tutto si produca nello scantinato lì dietro.
Giusto per la cronaca, probabilmente per i braccialetti d’argento che porta e per il modo in cui li porta, assomiglia a Keith Richard dei Rolling Stones, ma più passa il tempo, più fatico a ricordarmi com’è fatto veramente. Perché l’ho pensato troppo. Non lavora quasi più, perché ha deciso che può permetterselo, e fa lavorare un ragazzo che secondo lui, un giorno, diventerà bravo come lui e con il quale mi ha fatto trattare.
Ma deve farne di strada il ragazzo. Si perché a un certo punto ci lasciò da soli e me lo feci a fettine. Ed ero ancora lì che me lo sgranocchiavo se non fosse intervenuto lui, dall’altra stanza, a
interrompere la trattativa, e a dire con voce ferma che rispetto alla roba che avevo messo sul tavolo, se io non aggiungevo qualcosa, potevo anche andarmene, perché saltava tutto. E dal canto mio feci anche la finta di andarmene, ma era la terza finta che facevo così e stavo perdendo credibilità, è un gioco sottile fare quella finta e devi saperla fare. E lui aveva capito che avevo finito i colpi.
E poi la roba sul tavolo mi interessava. Per cui alla fine tornai, con le piume basse ingoiando la leggera sconfitta, pagai la cifra e me ne andai e non pianificammo niente. A loro non interessava alcun progetto, è solo l’uno contro uno che concepiscono, sul quale vivono e danno il meglio. Solo sfide secche.
Così, dopo essermi fatto fare una foto col ragazzo, quello scarso, che avrei battuto, una foto intensa, sfocata e bellissima, presi il primo aereo per l’Italia con l’argenteria chiusa in un sacco, e all’aeroporto, forse per stanchezza, seduto nei seggiolini d’attesa non so perché mi guardavo le mani e pensavo. Fui contento, ma tanto che a un certo punto mi venne da piangere e la cosa più bella fu non fare niente per nascondere le lacrime.